Le poche mostre di Piero Zuccaro che in questi anni ho avuto modo di vedere sono accompagnate dal ricordo di una emozione vera provata ogni volta: un ricordo netto e forte.

Forse occorrerebbe darne conto e ragione, a me stesso anzitutto, anche per l’evidente mancanza di comuni affinità con l’opera di Zuccaro. Ma l’attitudine al concetto non è stata una mia peculiarità, oggi meno che mai. D’altra parte col passare degli anni sospetto e scetticismo avvolgono le parole, specie quelle che si estendono nell’ambiguo territorio dell’arte. Credo dunque che “l’emozione”, questo grumo misterioso dove corpo e anima si incontrano e si riconoscono, nella loro infinita complessità e contraddittorietà, costituisce l’unico valore per me credibile. Maggiormente nel nostro caso, riferendomi al lavoro e alla personalità di Piero. Alla singolarità esplosiva, possente e raffinata insieme del colore e della materia, manovrata con tanta energia (vorrei dire con violenza) da un organismo come il suo, minuto e così segnato dalla gentilezza della sua natura – come osservavo in una precedente nota di qualche anno fa -.

In effetti è in questo particolare dualismo che l’essenza della sua pittura, la sua “gioiosa disperazione” muove nel profondo l’occhio dell’osservatore. Proprio in Questa contrapposizione dinamica non solo gestuale ma ideale e infine visionaria nel risultato, pur nella mancanza di qualsiasi riferimento visivo della natura o del sociale.

Astrazione pura dunque: pura espressione di forze più che di forme celebrate dal colore e dai movimenti della materia. Che non spiegano né danno alcun conto se non l’indicazione di un viaggio verso l’ignoto permeato solo dall’intelligenza nella sua forma  assoluta.

 

Piero Guccione