La stanza dei fiori

 

Al principio di questa mostra, e ugualmente di questo catalogo, stanno alcuni segni, e allo stesso modo alcune ombre, confitti nel colore che è muro denso di materia fatta dell’umidore del mattino sorgente. Quando l’aria non è ancora azzurra. Spasmi e silenzi, su piccole superfici percorse dal pastello a olio, che ha della pittura l’aura ma con una grazia che sfuma tra le dita. Lividi ancora notturni, oscure cicatrici che sono sul punto di sprofondare dentro quel mare d’alba, ma vi galleggiano ancora per un momento, in un tempo sospeso che è l’inizio e la fine delle cose, l’apparizione e la scomparsa.

Ma pur lavorando, Zuccaro, su un’idea di spazio tutto occupato dalla natura, che per lui è quasi solo l’azzurro nell’infinità delle sue gradazioni e modulazioni accidentate, queste nere sindoni d’ombra sono ciò che sta chiuso, che sta al chiuso di una stanza, la stanza della madre. Ciò che sembra l’apertura del cielo, il vento placato nell’azzurro, è invece memoria di luoghi e persone. Non è forse un caso che degli stessi mesi sia un Omaggio a Rembrandt che mette al centro dello spazio una figura come un bozzolo incatramato di rosa, facendone una larvata apparizione sul frastagliarsi del colore. Ma subito dopo sono i due pastelli con La stanza di mia madre, dove, e soprattutto nel più bello tra i due, quel colore si è quasi bloccato, distesa tempestata di luci appena affioranti. E, forse, di più, sparenti in una tessitura che ha conosciuto quel lato tragicamente elegiaco dell’informale e se n’è staccata per essere perenne fioritura, fontana, acqua che sgorga dal cielo muto.

Eppure questa stanza, questo simulacro di luoghi e silenzi, è il centro di tutto il mondo più recente di Zuccaro. Lo è anche se così non sembrerebbe, e quasi lo sguardo potrebbe scivolare via da questi due esili brandelli di spazio. Scivolare via per non avere notato niente. Poiché qui la pittura non ha nulla di eroico, non è dichiarazione accesa, non è sfida lanciata. È invece un pensiero dolce, la scoperta di un limite, uno sguardo commosso sul mondo, una luce fioca che s’accende dentro quella stanza. È proprio da questo non eroismo che nasce la forza della poesia, se mai questa parola abbia ancora oggi un senso compiuto, e non sia invece, soltanto, la fragile bandiera, consunta su ogni lato, di una specie di sentimentalismo inutile e sciatto.

E poi invece rincuora incontrare pittori così, che non hanno paura di pronunciare la parola del colore, che se ne infischiano di avanguardie e retroguardie, e sentono lo stile come il mezzo per raggiungere il terreno, tutto da dissodare ancora, della moralità. Parola difficile da pronunciare, compresa entro mille fraintendimenti. Ma parola necessaria perché la pittura sia ancora uno strumento di verità, e ancor di più l’immagine sublime della bellezza. Guardiamo a non moltissimi esempi, eppure quando ne incontriamo qualcuno ci sentiamo meno soli. Abbiamo riconosciuto un nostro simile, per quella legge del doppio che da sempre governa la passione, e lo struggimento, dello stare al mondo.

Così è in questi quadri, dove scopriamo l’incanto del vedere e il tempo lungo di una sovrapposizione tra ciò che si vede e la memoria. Un grande, bellissimo dipinto del 2005, Fiori d’acqua, tutto sparso di una primavera sopra l’azzurro, ci mostra meglio di qualsiasi altra cosa come la tensione dello stile non sia mai una vuota parola ma piuttosto la vita e il sogno, la danza continua del colore sopra il colore. La traccia da seguire, l’affondamento e la resistenza delle forme, il loro consistere nel riflesso che da ogni parte conduce e nulla lascia nell’impossibilità di avverarsi. Questa è pittura del tutto possibile, dell’avveramento del mondo, del suo essere ciò che si è visto e ciò che non si vede più, senza che la scomparsa sia il vuoto quanto invece la meraviglia di un luogo ogni volta creato.

Ha intitolato Relitti alcuni quadri ultimi, Zuccaro. E proprio questa serie di dipinti, nella loro ancestralità naturale, nel loro essere un pieno dentro il vuoto, ci dicono davvero come questo vuoto non sia assolutamente scomparsa ma il luogo che accoglie la molteplicità dei fenomeni. Il vuoto nega la sua funzione apparente, e si consegna invece alla specificità di luogo che contiene, che ricrea le forme dopo averle viste scomparire e sprofondare. Ed è molto interessante seguire fino in fondo questa idea che Zuccaro ha della pittura, che a lui pare una forza che senza sosta si genera e si rigenera, per cui dalla fine nasce il principio. Tutto è apparenza che vive nella ricchezza estrema e abbagliante dell’azzurro, dalla sua accensione più piena e tonante, fino al suo ceruleo spegnimento in un grigio che non è mai di nebbia ma di cenere morbida.

Il pittore lascia che a vivere sia solo lo scheletro delle cose, la traccia di un volto o di una figura. Muschio che si deposita lì dove parrebbe non esserci più spazio per nulla. Ma lo spazio si moltiplica, lo spazio non è più un luogo ma i molti luoghi. La ricchezza di quel fondale, su cui tutto si posa, rende indifferibile la riduzione a essenza delle forme. Le linee sono singulti, accadimenti mai casuali del colore, sua espressione in quella riduzione all’essenza. È così che la ricchezza di questa materia è ciò che avvolge e fa vivere, riflettendole, le ali di una farfalla posata sul cielo.

 

Marco Goldin

(In Zuccaro Opere 2004-2006, Linea d’ombra libri)