Di Piero Zuccaro si ricordano certi quadri inaugurali, che stavano sulla scia di quanto prodotto da Attilio Forgioli, da lui lungamente studiato nel segno di una preferenza sì di materia, ma che era anche la stremata, casta invariabilità del sentimento. Quadri nei quali il colore acido di Forgioli si trasformava, per il tramite di Morlotti, in un colore grasso, tutto lucidato nelle sue paste alte; da lì usciva un’immagine che non era più la quintessenziale descrizione di una realtà assunta per brani, ma diventava un desiderio di natura, una tumefazione del vedere. Il paesaggio azzurro del 1993 è senz’altro l’opera che più di altre sintetizza questo momento: concentrata adesione al reale per nuclei significanti, elaborazioni della materia, cicatrici e saturazioni.
E se da un lato la natura viveva entro questa misura di totale offerta di sé, dall’altro, come fu per Puglisi, la vicinanza con Franco Sarnari consentì a Zuccaro di estremizzare appena la propria ricerca, soprattutto guardando al ciclo dedicato a Monet e a Pollock. Nel quale erano presenti con evidenza tutti gli elementi della visione, e della sua costruzione, che lo avevano in modo tanto stringente interessato.
Si trattava di lasciare che le luci si internassero ancora di più nella materia, mentre lo sguardo cominciava a provare il senso della distanza. Senza che in alcun modo puntasse alla veduta, Zuccaro centrava il cuore del problema (giardino, 1993), ponendo tra sé e il mistero della luce l’altro mistero, quello del colore che diventa gorgo della materia. Ma già sul finire dello stesso 1993, con un quadro molto bello e inaugurale di un nuovo cammino, la Casa rosa, egli spostava verso quella zona che invade adesso tutta la sua pittura.
Ed è evidente come la ricerca sulla sintesi del colore operata da Bonnard, agisca in modo estremamente poetico, una volta che le luci non sono più il sordo gorgoglio di una materia dal timbro basso, ma si spandono ad avvolgere tutti gli oggetti della rappresentazione. Che è quotidiano diario, soprattutto riflesso, per questo aver spinto la pittura più in profondità, averla collocata nella distanza. Vengono quindi riflessi accesi, e sono ancora una volta la mai dispersa essenzialità di un colore generoso, che si offre come fatto di superficie e subito dopo s’inabissa.
Marco Goldin
(In Pitture, 1996, Casa dei Carraresi, Treviso)