Nel magmatico ribollire dei colori, crepita, prendendo corpo, il tumulto espressivo di Piero Zuccaro.

Tutta la fatica, la sofferenza e l’intensità d’un iter creativo, per cui le emozioni si fanno immagini, esita in un reticolo quasi cicatriziale che corruga la superficie delle tele. Come se dal caos interiore dei propri umori, l’artista – attraverso un tipico procedere per aspera ad astra – traesse pezzi di cosmos, di personalissimo ordine visuale, cristallizzandoli in vigorosi intrecci di cheloidi pigmentati. Il vorticoso incedere delle pennellate – strato dopo strato, ferita dopo ferita -, in una matericità di tattilissima evidenza, dà così luogo ad una pittura scarificata di grande impatto ottico, compiuto riflesso del pathos sensoriale e ideativo dell’artista.

Ma l’urgenza d’espressione – non esente da derive espressioniste – sottesa a queste opere, non implica affatto – a nostro avviso – un furor o un trance dionisiaca (quale si potrebbe percepire ad una analisi esteriore e superficiale), bensì una ricerca ostinata d’armonia, un afflato demiurgico affidato alla purezza del colore. Infatti la stesura febbrile e a tratti vorticante, pur proseguendo nel solco d’una progressiva dissoluzione della forma – tracciato dall’ultimo Monet, approfondito da Pollock e continuato da Sarnari, uno dei maestri di Zuccaro -, non decostruisce mai fino in fondo, ma compone un gioco di illusioni-allusioni che adombrano tracce palesi di figuratività. Sicchè l’intensità dell’orchestrazione cromatica, per quanto pregna di suggestioni astrattiste, non vela, piuttosto disvela, plasmando in un baluginio di squilli coloristici.

Come inferte sulla prevalente ed increspata azzurrità – tonalità aerea e marina che nel suo caratteristico vibrare rimanda a Guccione e quindi al gruppo di Scicli di ideale appartenenza -, le screziature gialle, verdi e rosse di “Fiori d’acqua”, rendono l’idea dei petali nel mare, del loro abbandonarsi alle correnti, con una emozionale poeticità difficilmente raggiungibile mercè un impianto di pura mimesi formale. Parimenti, nei “Fiori del poeta” il mero dato naturalistico appare travalicato nettamente, eppure i lancinanti tocchi di policromia che feriscono l’azzurro indicano con chiarezza il vivido schiudersi di turgori floreali. Ed anche altrove – nella serie delle “Fontane” ed in particolare nella “Fontana dell’angelo” -, la pennellata fluttuante, che quasi sembra farsi moto vorticoso al centro del dipinto, ricrea con forza e levità la suggestione d’un idrodinamismo, d’una cinetica di schizzi in ascesa e ricaduta, con una icastica tutta mentale in grado di eludere il ricorso a tentazioni fotografiche.

Giocando coi pieni e i vuoti nello scavo dei colori sedimentati sulla tela, grazie a sottilissimi trapassi chiaroscurali, Zuccaro pare insistere sulla relazione fra i volumi reali dei soggetti e la loro materica rappresentazione. E in questa ricerca personale affiora tutto il peso ed il retaggio del Barocco insulare, da lui trasfigurato nel lene alternarsi di luci ed ombre all’increspato incedere dei pigmenti in superficie. In tal modo, le architetture della val di Noto si traducono in altrettanti precipitati di cromie, con uno spostamento dell’attenzione propria e degli osservatori dai riflessi luminosi sull’acqua a quelli dei monumenti nei cieli cristallini.

È qui – si guardino “Architettura” e soprattutto “Pietre nel cielo” – che Zuccaro si spinge alle soglie dell’eterea dissolvenza, riducendo le strutture architettoniche a puro accenno fantasmatico, a simbolo d’un vissuto estetico lungamente introiettato e poi espresso – con vis e gratia – nella sua nuda essenza.

Salvo Ferlito

(In Piero Zuccaro, 2001, Opere Recenti, Galleria, La Murzia, Palermo)