In tanti hanno chiamata astratta la pittura di Piero Zuccaro.I termini astratto e figurativo, si sa, non tengono il passo coi tempi, oggi che persino pittura e pittore si sono fatte voci desuete; tuttavia qualche considerazione intorno ad essi può facilitare l’approccio al lavoro del giovane siciliano. Se affrontate a quelle di Morlotti (cui sono state spesso accostate) le immagini di Zuccaro certo sono astratte, più astratte che quelle del lombardo, e il punto d’incontro tra i due non va oltre – quasi – il dato tecnico di una pasta pittorica stesa o accumulata col pennello largo e con la spatola. La materia di Morlotti è coinvolta dallo spunto di partenza, ne è intrisa, anzi il motivo vegetale, paesistico o umano più che spunto si fa sostanza stessa della pittura, sua carne vivente: e al paragone il lavoro di Zuccaro è appunto astratto; se c’è riferimento ai riflessi dell’acqua, ai fiori, a una struttura architettonica, esso resta larvale e del tutto esterno.
Il ricordo del maestro di Lecco c’è ma non tocca il cuore della poetica.L’immagine, provenga dal tema tante volte affrontato dei riflessi o dei fiori, ovvero dalle aspre e affascinanti architetture catanesi, in Zuccaro è – volta a volta – fluida, mobile, disancorata, ovvero larvatamente ritmata da un invisibile supporto geometrico. Non è il titolo a volgerla verso l’ascendenza panica della natura o invece verso una segreta razionalità strutturante; l’uno o l’altro orientamento dipende piuttosto dalla vita stessa delle forme: ora librate in un empito a suo modo lirico, ondeggianti, impennate o precipiti come onda sullo scoglio, ora rapprese su poche latenti linee-forza senza tuttavia dimettere una luminosità e una ricchezza che sembrano riscontrarsi, ancora, su vastità d’aria e di cielo.
Queste osservazioni concernono in particolar modo il lavoro più recente di Zuccaro. La corposità della pasta cromatica che lo contraddistingue da sempre s’è venuta colmando d’inedita linfa; la secchezza e l’aridità, non riduttive ma qualificative, che davano a quella materia sostanza di magma primigenio e che risultavano prevalenti, se non esclusive, si sono ora rigenerate; da reperto carico di memorie si sono mutate – fattesi umorose, imbibite di succhi vitali, di interne frescure sorgive – in una sorte di natura naturans. Colore dominante è il blu; blu di mare, d’aria, di cielo, di una consistenza lievitante e leggera delle cose che lo spessore del pigmento rende ancora più liquido, invitante.
Non è la pasta dolente di Foutrier, nella quale la componente metaforica e simbolica giuoca ruolo primario; ma non sono neppure le calendole, le rocce, i paesaggi di Morlotti che si fanno pittura restando natura. A tutta evidenza opera ancora – consapevole o meno – un retaggio informale, in una visione che tuttavia da quella stagione ha preso irreversibilmente le distanze. Non soltanto Zuccaro è nato quando gran parte dei maestri storici di quella temperie era scomparsa, ma la sua maturità – che data ora da circa un lustro (da quando la tacita lezione di Forgioli fu sostituita da quella di Morlotti) – porta anch’essa il segno di quel nuovo rapporto con la natura che distingue la parte migliore della giovane pittura italiana, e che è ben altro dal naturalismo ormai trascorso.
Ieri quello di Zuccaro era un mondo di fossili, si chiamassero anche colombe, riflessi o acqua di porto; nell’immagine rappresa echi di vita vivente erano tuttavia sommersi; la loro densità poetica trasudava come da reperti dissepolti in un silenzio antico che il pigmento corposo e la cromia castigata, compressa, rendevano più struggente. L’indecifrabilità del soggetto appena alluso accentuava il mistero, in un’aura talora persino sacrale. Oggi, come si diceva, un fremito nuovo (cromatico, di pittorica scioltezza e freschezza) vibra nel colore rigenerato; i soggetti sono ancora rinchiusi in una sorta di introversione visiva, ma nel permanere del mistero, di un inquietudine tacita che alla visione di Zuccaro è connaturata, chiara è un’inedita ansia di vita, un modo in qualche misura diverso di rapportarsi al mondo. Le superfici riflettenti, che (rinnovando un vecchio uso) l’artista adopera per leggervi a suo modo il soggetto da rappresentare, non fanno diaframma, non frappongono schermi, aumentano anzi, sorprendentemente, la flagranza dell’immagine. Zuccaro non conosce che le elaborazioni lente, meditate, tenaci, ma anche se ancora in germe sembra profilarsi nel suo lavoro un mutamento non trascurabile.
Guido Giuffrè
(In Piero Zuccaro, 2000, Galleria Andrea Cefaly)