Vorrei dire subito, senza giri di parole, che la pittura di Piero Zuccaro, fra le nuove, numerose leve di giovani artisti oggi trentenni, è quella che per talento e forza evocativa mi ha maggiormente impressionato; insieme aggiungo – non per opportunità ma per verità dei fatti – a quella del suo amico e sodale Giuseppe Puglisi.

Ma questa breve nota è dedicata a Zuccaro. È dedicata alla sua minuta figura e all’energia prorompente del colore e della materia con cui egli riempie le sue tele anche di grande dimensioni. Per questa via, giacchè, sovente, la figura di un artista sembra essere il campo prediletto di tutte le enormità e contraddizioni dell’umano, di Piero si può ricordare il sorriso sempre pronto, quieto e gentile, la sua serena amabilità che cela tuttavia una volontà inflessibile, determinata, tesa a raggiungere tutti gli obiettivi possibili: di pittura anzitutto. Un solido e coordinato tessuto di grumi, specie nelle opere ultime, di grumi pesanti come d’asfalto o basalto, di grigi densi, funerei e gioiosi insieme. A conferma, si direbbe, di un esatto quanto felice ossimoro: la “gioiosa disperazione” che secondo Kundera sempre presiede il gesto o l’invenzione dell’artista.

“Pittura – Pittura”, come si dice oggi, quella di Zuccaro: e dichiaratamente astratta. Nei suoi quadri sarebbe inutile cercare metafore o rivelazioni “sul pathos della carne o del destino umano”. Ciò che invece troviamo sono solo concetti pittorici, perseguiti con grande concentrazione. Sul suo lavoro sono già stati rilevati giusti antecedenti nei nomi di Morlotti e di Forgioli come sicuri punti di partenza. Ma altri ne farei, a mio avviso, di più radicale e pura provenienza astratta, anche se meno immediatamente riconoscibili: di Ansger Jorn per esempio o dell’austriaco Hundertwasser, e persino quello del russo Rothko, non più ossessionato dalla levigata cupezza delle sue stesure.

Non sono certo se Piero autorizzerebbe queste ascendenze, ma è certo che nel flusso controverso e infinito della percezione estetica l’apporto della coscienza è cosa di scarsa entità. Ciò che conta è l’insieme; conta la ricchezza e la complessità della formulazione linguistica dove si saldano intelligenza e sentimento pur nella complessità delle cose e dei significati.

D’altra parte, nell’inesplicabile caos del mondo e della vita, in definitiva, cos’è l’arte – come sempre è stata – se non una silenziosa palestra dell’umano. Assoluta quanto effimera, nella quale forze contrarie, si esercitano in un moto incessante alla ricerca di possibili equilibri. C’è a questo proposito una mezza paginetta di D. H. Lawrence intorno all’arte, esplicativa e illuminante, che dice: “…il fine dell’impulso maschile è di celebrare il movimento, il moto infinito, la diversità infinita, il cambiamento infinito. Il fine dell’impulso femminile è di celebrare l’unità infinita, la stabilità infinita. Quando essi operano insieme, come deve essere nella vita, c’è, come è sempre stato, un doppio movimento: centrifugo per l’uomo, che fugge via lontano dal centro, all’esterno verso la vibrazione infinita e centripeto per la donna, che si muove verso l’eterno centro di quiete. Una combinazione tra i due movimenti produce un insieme di moto e stabilità, che appaga”.

Una bella pagina che somiglia a un bel quadro di Zuccaro!

Come a tutti i quadri belli, forse, dipinti da quando la pittura è stata inventata.

 

Piero Guccione.

(In Zuccaro, 1998, galleria, Studio Nuova Figurazione, Ragusa)