La Cattedrale e la notte

 

Come un prologo

 

Tre anni fa Piero Zuccaro realizzò una serie di pastelli a olio che intitolò Architettura, interno. Erano sempre affascinanti visioni che spargevano la loro luce multiforme in uno spazio vuoto, eppure tutto tatuato di scintille, abrasioni dell’aria, ferite e suture del colore. Il pastello sembrava essere la materia splendidamente adatta a dire quella sospensione, quel luogo del nulla e ugualmente colmo di essenze, di correnti, di attraversamenti del silenzio. E al centro dello spazio fluttuava, galleggiando, la forma di un lampadario, che noi sappiamo essere quello della cattedrale di Catania, la città nella quale Zuccaro è nato e nella quale vive.

In quel 2011 egli faceva le prime prove attorno a un tema che avrebbe occupato tutto

Il suo lavoro per gli anni successivi, fino ai grandi quadri realizzati e approfonditi per questa mostra, anche attorno alla musica della Messa Arcaica di Franco Battiato. Ma in quelle piccole tele inaugurali, poste su un limite incerto di notte, si esprimeva già il senso di un rapporto miracoloso tra la forma con la sua presenza e lo spazio con la sua assenza. La minima dimensione di quelle opere consentiva una concentrazione fortissima dell’immagine, che per questo motivo non diventava più racconto, non aveva più alcun peso narrativo e si dava invece in una continua variazione di senso.

E tuttavia il passaggio più vero avviene con i pastelli del 2013, quando la visione, d’incanto e per un miracolo, tocca il suo vero centro. Come per l’arciere, che postosi lontano dal bersaglio scocca la sua freccia che infine ripetutamente colpisce il centro del disco. Zuccaro costruisce in sequenza opere tutte piene di meraviglia, nella quale si alternano i colori di albe delicate, di notti fumiganti, di notti più buie, di evanescenze misteriose e segrete, di emergenze come in grotte di madreperla, di grigi sottili e tessuti come fosse un portale a San Marco dipinto da Music. Mentre ancora una volta era quel lampadario totemico sospeso nel vuoto della cattedrale. Che viveva nello scorrere delle stagioni, nel trascorrere del tempo. E soprattutto nel trasferirsi delle luci, che nelle ore del giorno diverse lo colpivano, attraversandolo.

La trama della materia si frantumava, eppure lasciava che si manifestassero liquidità, ceneri rapprese diventate acqua di laguna, nebbie, inviolate stanze nell’aria. Si sapeva che quelli erano i luoghi di un’atmosfera, di pianeti roteanti, l’apparizione delle stelle, ma tutto in un interno. Quelli erano cieli inavvistati, resi possibili solo dallo sguardo che qui è sempre sogno, memoria, soprattutto spirito. E talvolta erano volti più scabri della luce, essenziali, vuoti di quella materia rutilante, grassa e tempestosa. Volti di una luce pallida, essenziale, assoluta. Volti nei quali appariva quella trama fitta di segni che sempre staziona sotto a questa pittura, fatta in apparenza solo di paste immense del colore.

Invece proprio in quel momento venivano cadute di foglie autunnali, scuotersi di alberi dai rami ormai spogli, tramonti dorati, piccoli fuochi accesi come in un Tiziano tardo impastato con le mani. Torce di Tintoretto che diventavano lumi e candele di quel lampadario e si spandevano nell’aria, intercettavano fumi. Sembravano quasi danzare, nella sospensione e nel vuoto silenzio di una chiesa le cui navate non viste erano sempre vuote. Poiché lo spirito si coltiva nel silenzio e nella lontananza dalla vita, dal suo traffico, dai suoi rumori. Zuccaro dipingeva tutto questo sciogliersi del tempo e coltivava la dimensione di una pittura che pur non apparendo tale, si indirizzava verso il vuoto. Un vuoto riempito di essenze e durature intimità.

 

Il tempo finale

 

Poi in questo 2014, accanto ad alcuni pastelli ancora – pieni di un incanto e di una stupefazione più raccolti attorno al nucleo di quell’essenza, sono venuti alcuni grandi quadri. Allora è come essere penetrati nel cuore della materia, nel gorgo della luce, dentro la colata del vulcano. Zuccaro ha innalzato il vessillo della pittura e l’ha usata per dire il mistero. Nell’apparenza di una ricchezza infinita della trama, egli ha cercato in ogni modo la compromissione con lo spirito, l’azzeramento di tutto. Il lampadario nella cattedrale quasi non si vede più, ed è fatto di brandelli nell’aria e nel vuoto, è una bandiera lacerata dal vento, un vascello che va nella tempesta della luce. Che può essere del rosa di un’alba, del rosso di un tramonto, del blu profondo di una notte giunta ad oltre i confini del tempo.

In questi quadri, bellissimi e pieni di un nitore di materia graffiata, lo sguardo si è incuneato nel magma e si lascia trasportare da quella corrente calda, incandescente. È in questo modo che Zuccaro ricerca il tempo primo, l’ora inaugurale del mondo, la forma assoluta pur dentro l’evoluzione della materia. La cattedrale è il segno, il lampadario sospeso è il punto di passaggio, una porta lasciata appena socchiusa verso i primordi. È in questo modo, nel governo di queste luci, che la pittura scopre il suo ruolo temerario di affacciarsi su un vuoto. La pittura è lo strumento meraviglioso con cui si sta in equilibrio sul cratere del tempo.

 

Marco Goldin

( Marco Goldin, testo in catalogo edito da Linea d’ombra, 2014, La cattedrale e la notte, palazzo Chiericati, Vicenza)